“Sono cose di campo e lì rimangono”. Così il difensore romanista autore del gol contro l’Inter aveva stemperato ai microfoni di Dazn lo screzio avuto con il giocatore dell’Inter che l’aveva apostrofato come “ne°ro”.
Parola grave da dire. Anche nell’ambito di una competizione dove lo scambio di cortesie e altre provocazioni varie sono un canale comunicazionale consolidato, anche se non lecito.
Sono queste le ragioni per cui il giocatore dell’Inter salterà la convocazione in nazionale e potrebbero essere previste altre sanzioni a suo carico. Ad incriminarlo sono le riprese ed il labiale che oramai incrimina qualsiasi protagonista della scena pubblica, tanto che quando sa di essere ripreso il soggetto per tutelare il suo riserbo è costretto a coprire i movimenti della bocca con la mano.
L’apparenza è sempre quella di una conversazione riservatissima. Ed è oramai pratica consolidata. Acerbi non se n’è ricordato. Ha sparato l’epiteto infamante, non si capisce perché: in fondo la partita, pur sentita, non è andata mai fuori registro – a parte i soliti atteggiamenti clownistici in entrambe le compagini nelle cadute e le richieste di intervento arbitrale.
Quello che maggiormente impressiona nell’episodio non è tanto il fatto in sé né la gogna mediatica che dovrà sopportare Acerbi. Quanto il fatto che dovrà pagare pegno con l’imposta comminata di non giocare in nazionale. Come se non fosse persona degna di parteciparvi. E non è tanto per il danno in sé – Acerbi tra sé e sé sarà anche contento di fare un turno di riposo in una compagine, quale è quella degli azzurri, che porta ben poca soddisfazione agonistica.
Non si tiene conto che una parola offensiva, feroce, detta per offendere e richiamare una reazione, è detta per sollecitare i comportamenti indicati. Non significa l’attestazione di razzismo da parte di chi la dice. Se battaglia contro il razzismo fa fatta si debbono scegliere luoghi e contesti dove la divisione su elementi così superficiali costituisce una divisione categoriale. Ed è sicuramente cosa grave da debellare con una forma di educazione permanente nelle scuole e nei luoghi di formazione.
Ma qualora il pensiero dovesse vincere ogni barriera probabilmente continuerebbero questi insulti tesi solamente a classificare genericamente il soggetto dell’offesa in modo da sentirlo parte di una categoria inferiore. Ed è forse questo il lavoro attento che deve esser fatto. Insegnare che nella sfera dell’umano non esistono categorie prestabilite, neanche di genere. Esiste l’umanità. Ed almeno in questo non c’è relativo.