La critica come forma di conoscenza, la critica come filosofia, come visione, la critica si pone come vitalità creatrice uscendo dalle strettoie di essere ancorata strettamente o dipendente dal suo oggetto. Semmai, l’esplosione di ogni oggettività e di qualsiasi relativismo del soggetto. Il disporre del bene della lettura del mondo, che nell’arte come nella Storia trova il suo campo, sostanzia il solco della stessa esistenza reale. Perché altrimenti non saremmo se non riuscissimo a introdurre in nuovo nella favola dell’esistenza.
Il messaggio del nuovo angelo presente nella raccolta di Walter Benjamin consiste proprio in questa prospettiva evolutiva ed emancipatrice. Il superamento degli schematismi per cui esiste un mondo di oggetti che è dato davanti al quale il professionista della loro interpretazione può solo rilevarne illuminazioni utili per sé e i suoi simili.
La verità presente e coesa al Novecento invece ci insegna a valorizzare ogni momento come passaggio di storicità e come occasione di rigenerazione. In questo l’Arte come le occasioni, piccole o grandi, fornite dagli accadimenti ce ne danno grande opportunità. Ma si tratta solo di uno stimolo. E forse sono indifferenti se lasciate alla loro cosalità. Il passaggio centrale per cui vale la pena di approfondire costantemente il senso delle cose è quello che ci è dato dalla critica.
Finalmente troviamo quindi la leva in grado di farci uscire dalla immane tendenza all’universalismo -che è consapevole però della sua originaria impossibilità – presente nella Critica del Giudizio di Immanuel Kant.
Walter Benjamin segue maggiormente l’indirizzo lastricato da Ludwig Wittgenstein del Tractatus, per cui esistono le cose, gli oggetti, esiste poi la facoltà creatrice della lingua che è in grado di combinarne gli elementi per farne una grande unità mobile tesa a dare visione del mondo. E qui non si capisce più se stiamo parlando del filosofo austriaco o di quello tedesco. E non sappiamo più neanche se, in verità, la grande lezione non derivi invece Arthur Schopenhauer de Il Mondo come Volontà e Rappresentazione.
E in fondo non ce ne importa. Perché i richiami saggistici scivolano con una tale fluidità – ed è evidente il limite dell’attualità dei tempi in cui furono scritti – tali da farli somigliare più a una conversazione o una nota a mano libera piuttosto che a una trattatistica ossequiosa di sé.
I risultati sono alcune acquisizioni a lui riferite ma non ancora divenute “carne e genio”. La violenza può essere presa in esame solo attraverso la filosofia della Storia, non dalla filosofia del Diritto né da quella del diritto naturale (pag. 6). E come sintetizzato nel film Arancia Meccanica la polizia che è legittimata ad esercitare la violenza deve distinguere due funzioni: il potere di esercitarla a fini giuridici; 2) disporre secondo i suoi fini (pag. 14). E nella comprensione delle fenomenologie, come nei testi, la traduzione è insensata perché l’opera non è fatta il lettore. Tantomeno la versione che si piega per esser letta finalizzandola alla sua comprensione (pagg. 39 – 40). Ad ogni metodica espressione corrisponde una lingua. Musica, pittura … Il linguaggio è solo uno di questi esempi. La lingua limita la natura e si imprime sulle facoltà cognitive (ag. 72).
E la conclusione di un lungo tratto saggistico su Baudelaire per dire che lo choc da vivere consiste nella dissoluzione dell’esperienza nella sua aura di conoscenza suprema. Il tutto per ambire alle qualità di Proteo che consiste nel mostrarsi flessibile all’immanenza.
Il tutto per dirci di diventare indifferenti alla sua stessa opera nella presunzione suprema di assimilarla come qualcosa di acquisito e praticato spontaneamente. È la nuova novella predicata dall’angelo.
( Walter Benjamin, Angelus Novus, ed Einaudi, 2014, pagg.399 )