La riproposizione del quesito volgare relativo all’utile della filosofia nella menzione ironica evidenzia l’estraneità ad un ambito letterario pur presente, e in forme assai diverse, nella Storia. Talmente diverse da poter assumere con successo l’ipostasi che la filosofia non esiste. Così sono state chiamate nella Storia quel “guazzabuglio di tecniche” con cui si argomentata sull’indicibile (Wittgenstein).
Non giova – come fa osservare Emanuele Severino – tradurre la sensatezza dell’inizio con l’espressione “meraviglia”. Si tratta di traduzione discutibile, dice sempre il grande maestro bresciano.
Lo sforzo teorico, spiegava Emilio Garroni, sta nell’inserire in ordine classificatorio al sapere assegnando però il crisma di una ‘mathesis specialis’. In effetti i campi di applicazione e di analisi di una tradizione, a ben vedere, non differiscono poi tanto da altri campi che hanno l’ambizione di arrivare a un sapere positivo.
Ma in questa nuova dimensione di ‘uso civile’ non è detto che il filosofo trovi un ruolo nella società civile. Qual potrebbe essere se non quello già occupato da altri specialismi? E quale stimolo può dare allora il filosofo nell’ “età della tecnica” (Martin Heidegger).
Dove vive il filosofo oggi? Quali sono i suoi contributi al sapere generale? Dobbiamo ammettere una crisi epocale che dura da decenni tra i titolati di cattedra.
Arriva da questo vuoto il riempimento avvenuto in diversi ambiti – il più delle volte in modo inaspettato. Questo insiste è sussiste nelle pieghe di diversi saperi che nel compiersi trovano, in un’analisi diversa, diversa coscienza di sé. Ed è questo il modo che un metodo e un’introspezione acquisisca cittadinanza (Wittgenstein riletto da Mario Trinchero e da Aldo Gargani) e non resti inascoltato e disoccupato.