In questi giorni sui Social vari estimatori hanno pubblicato a titolo personale il ricordo di un capolavoro assoluto della discografia di Lucio Battisti. Si tratta di Anima Latina, secondo la memoria storicizzante dei fans più accaniti apparso alle vendite ad inizio dicembre 1974.
L’opera proponeva una versione inedita di Battisti reduce da successi colossali rimasti nella Storia della musica leggera italiana. Stiamo parlando de I Giardini di Marzo, Pensieri e Parole, Il Nostro Caro Angelo, ciascuno in versione quarantacinque giri e il corrispettivo long playing.
Stavolta, come sempre, Battisti era chiamato alla replica del successone accattivante dove avrebbe unito la malinconia della voce all’arrangiamento Rithm’n blues con qualche altra trovata ravvisabile nei testi di Mogol.
Niente di tutto questo. Il Lucio nazionale sbaraglia tutti. L’incipit dà un senso di silenzio e di vuoto, come se vi fosse una presenza nell’aere ma impalpabile. Toccata da alcuni colpi di gran cassa e piatti. Le trombe quasi in lontananza aggiungono il senso di altitudine a una raffigurazione mentale lasciata alla elaborazione dell’ascoltatore. E poi la voce che sembra sospesa. Parole difficili da recepire perché danno l’apparenza di essere evocate da distanza impercettibile.
Il tutto si ferma improvvisamente con un ritmo di chitarra e la descrizione del canto di un contesto rurale dove ragazzi e ragazze conoscono l’approccio al sesso, non all’amore o alla relazione. Un rapporto di natura rimasto incontaminato dagli stilemi educativi dell’Occidente. Si celebra in questo modo l’anima latina dell’autore pago oramai di aver esplorato ritmi e moduli d’arrangiamento arrivati dall’America. Ora, dopo un viaggio, vuole rivivere il fondamento di una dimensione ancestrale perduta.
Testi e musica apparentemente prodotta da soli strumenti acustici si muove tutto su questa intuizione.
Sul piano dell’evoluzione dell’artista segna il primo divorzio da Mogol i cui testi non sono più preponderanti nell’economia del brano. Conservano l’importanza di confermare la dimensione del selvaggio primordiale ma non travalicano mai l’importanza di ritmiche e sospensioni melodiche. Forse, spingendosi ancora più in là , potrebbero tradursi con fonie assolute deprivate di ogni significazione linquisticamente determinata. Ma sarebbe stato un posso troppo in là .
L’opera nasce per non occupare i primi posti della classifica. Alcuni la leggono come il segno di una inevitabile crisi. È il segno di una rinascita invece. Un anno più tardi riprenderà situazioni molto più alla mano dove la natura blues riemergerà in modo preponderante insieme ai testi a la page.
Questo però è il momento della sospensione e dell’intuizione trascendente presente nelle comuni situazioni di approccio. Sembra volerci dire di non abdicare mai a questa condizione per rivivere la fondatezza ancestrale del senso più istintivo del rapporto uomo-donna, così come del rapporto con la natura.
Un disco che si pensava sarebbe stato cancellato nella memoria comune. Il fatto di essere rivalutato dopo cinquanta anni è il segno del suo essere avanguardia – e su questo non c’era alcun dubbio – ma anche di come questa operazione sia riuscita. E quanto abbiamo bisogno oggi di quel soffio primordiale.