Non ci sono limiti al trumpismo. E quale personaggio migliore per interpretarlo se non The Donald in persona. E nel non riconoscere l’altro come un limite oggettivo vorrebbe essere l’altro. Forse in un’altra dimensione, forse in un’altra esistenza. Ma lo dice. La chiave è sempre quella dell’umorismo ed è un modus ponens necessario perché consente di interpretare allo stesso modo la china delle asserzioni date successivamente.
Trump parla dal Michigan. Ha scelto questa terra per festeggiare i suoi cento giorni conclusi con flatus vocis. Una miriade di assertività rimasto come materiale per aneddotica varia. Il problema consiste nella continuità e nel decifrare come sarà ricordato.
“Mi piacerebbe essere papa. Sarebbe la mia prima scelta”. Ha detto. E lo ha detto rispondendo alla domanda, sciocca e inutile, di fare un endorsement verso un cardinale in conclave. E poi arriva l’abbraccio mortale di cui ogni esponente mondiale oramai ha paura. Quando Trump sponsorizza un soggetto politico immediatamente va in rovina. Stavolta è il caso del vescovo di New York. “Può fare il lavoro”. Il cardinale Timothy Dolan è molto stimato nella curia ma il fatto di arrivare da un paese potente costituisce una diminutio nel suo carisma in dotazione. Più semplicemente il mondo cardinalizio teme di dare potere ad un soggetto che già ne ha, almeno come influenze nello scacchiere politico del mondo. Ed è per questo che non lo sarà mai. E sarà ricordata come l’ennesima indicazione sbagliata del Presidente degli Stati Uniti.
Trump non si ricorda che ha vinto le elezioni e sta lì per festeggiare le sue quattordici settimane da Presidente tanto che se la prende col precedente antagonista, Joe Biden, e lo cataloga come il “peggiore presidente della storia”.