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“L’Italia è il paese che amo”. Con questa asserzione Silvio Berlusconi iniziò la sua nuova vita con l’ingresso in politica. Era saltato il tetto o meglio il castello sul quale aveva poggiato la sua ascesa di imprenditore e per essere sostanziata aveva bisogno di un riferimento certo nel nuovo quadro.

Altre interpretazioni, sempre fededegne, ritengono che invece il progetto di entrare in politica fosse pronto da anni, che molti lo sconsigliavano e questo era comprensibilissimo. Ed ora voleva cimentarsi proprio per un’esigenza di nuovo protagonismo che si imponeva in una fase nuova in cui del vecchio asse di alternanza politica al governo era cancellato tutto. Si doveva ricominciare dalle fondamenta con nuovi soggetti. Ma chi era pronto con il proprio partito e la propria organizzazione erano i comunisti del PCI ed i missini.

Due interlocutori preferenziali che avrebbe evitato volentieri, anche se con uno dei due, in alternanza, era stato costretto a trattare.

La definizione del personaggio storico Silvio Berlusconi potrebbe fermarsi anche solo nel teatrale 1993, quando cominciando dalla dichiarazione che dette in piena campagna elettorale per il sindaco di Roma era chiaro che Il Silvio sarebbe “sceso in campo”. Espressione che avrebbe fatto la sua fortuna come molte altre delle sue.

L’Italia è il paese che amo letto oggi potrebbe significare la sua, almeno potenziale, internazionalità. Segna almeno la potenzialità, la capacità di guardare altrove. Ma l’elezione del paese in cui si è nato serviva a professare il carattere vincente presente solo a tratti e legato a qualche sporadica manifestazione di sport.

Dopo due anni dalla sua morte è ancora impossibile tracciare una fisionomia distaccata, serena, del personaggio storico. E chissà quanto tempo ancora dovrà passare. Su di lui la stessa sorte di altri protagonisti del Novecento finiti comprensibilmente nel dileggio, ma dai quali trarre spunti e insegnamenti importanti per comprendere la nostra Storia e chi siamo veramente.

Sopra Silvio Berlusconi però il destino ha una piega ancora più significativa. L’ha ben evidenziata Paolo Minoli quando ha confessato come per l’elettorato di sinistra fosse almeno tollerabile – o addirittura stimabile – la figura di Gianni Agnelli e della “Famiglia” caratterizzata con il marchio “Fiat”. Diversamente dal discredito per il parvenu raffigurato in Silvio Berlusconi, a causa delle sue vicende poco chiare con l’Erario e con storie di malavita organizzata. Ebbene, a distanza di anni ci riprendiamo la figura di Silvio Berlusconi e apprezziamo meglio e profondamente quanto da lui realizzato, mentre sulle vicende della Fiat e di casa Agnelli sarebbe bene stendere un velo di pietoso silenzio per la miriade i aiuti pubblici ottenuti per essere impresa, non fare impresa.

Si dirà: “Ma una commemorazione a due anni di distanza dalla morte vorrebbe che si tratteggiasse qualcosa di meglio della persona, della figura, del suo aspetto umano”. Oggi c’è solo questo senso del riscatto unito a un margine di rabbia perché avviene nella sfera della memoria e non della presenza. Ma potrebbe almeno servire per riuscire a scriverne finalmente la Storia.

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