Il 5 ottobre del 1974 usciva l’lp Red dei King Crimson. Nessuno poteva sapere che si trattava dell’ultima opera suonata in studio del gruppo di qualità espressiva unico nella Storia musicale di quegli anni. Si intitolava Red e recava in copertina gli ultimi tre rimasti in sala di registrazione per la composizione dell’opera. Si selezionavano pezzi e momenti in cui c’era anche il violinista David Cross. In copertina raffigurati solo Bill Bruford, John Wetton e chiaramente Robert Fripp.
Sarebbe uscito un disco dal vivo di quella formazione. Un anno dopo, Usa, dal vivo, e dopo l’antologia doppia: The Young Persons guide to King Crimson. Qualche anno dopo, nel 1982, la riedizione del gruppo ma solo per il nome mentre era completamente cambiato il sound e i componenti. Era rimasto preservato solo Robert Fripp, ovviamente.
Red resta l’ultimo capolavoro del genio crimsoniano. E quando si dice crimsoniano non si intende solo la persona di Robert Fripp come diversi estimatori vorrebbero. Semmai Fripp fu il momento di estrema sintesi e di trovata compatibilità di condizioni e atmosfere assai diverse tra loro che andavano dal rock duro al jazz progressivo di quegli anni fino a dimensioni classicheggianti.
Non poteva essere un progetto da mettere su carta, nero su bianco. Era qualcosa che si trasformava disco dopo disco diventando vera esperienza musicale con risultanti aperti ad apprezzarne o denigrarne la riuscita finale.
In tutto questo Red appare la summa. Il capolavoro vero del gruppo, forse più del leggendario primo disco, assemblea in sé momenti disparati, ma tenuti insieme da un filo che è difficile riconoscere ma esiste.
L’apertura è data dal brano tutto strumentale che dà il titolo al disco. Si compone di tre momenti che si deducono l’un l’altro e riescono ad esprimere il meglio dei due diversi generi di quel tempo: il rock duro e la tentazione al sinfonico.
Subito dopo il risveglio aurorale con una chitarra che ascoltata sorprende ogni volta e siamo in Fallen Angel con linea vocale tesa ad umanizzare finalmente l’opera e il mellotron mixato. Si concede dei riff che tornano alla chiave hard rock lasciata precedentemente.
Continua il senso di questa ricerca con One More Red Nightmare dove con un tema molto semplice riesce a sviluppare l’inverosimile tanto che il melos iniziale appare un pretesto per dare vita alle improvvisazioni.
Con Providence siamo nella sperimentazione pura. Ma il tutto viene ripreso nella capolavoro tra i capolavori. Si tratta del brano Starless dove viene cantato il motivo che nel testo fraseggia quel Starless and Bible Black che aveva dato il titolo al precedente disco. Dodici minuti equamente suddivisivi in generi musicali dove ciascuno ha il suo e viene gestito il motivo che sa già di malinconia per una cosa probabilmente finita: la grandezza ineguagliabile di questo gruppo. La lenta ballata, sempre accompagnata dal mellotron, riporta il suo tema a un momento puramente strutturale dove duettano chitarra e basso. Ne esplode una tensione conflittuale in cui scaturita in atmosfera totalmete jazz per poi chiudere nel classicismo più tradizionale.
Un climax portato avanti con questa lucida coerenza non si era mai ascoltato prima e infatti non si è ascoltato neanche dopo.

