Il tramonto del riformismo in Italia

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Dopo la cancellazione totale delle utopie e la loro derubricazione nel novero degli orizzonti politici necessari (e invece avevano un senso perché guardavano all’ideale pure, anche se irraggiungibile, che dava senso alla prospettiva pragmatica), è arrivato il turno anche per il riformismo.

D’altra parte pare fosse inevitabile. Si pone come effetto conseguente alla fine delle utopie. Il riformismo ha perso il valore di mediazione che necessitava tra la grande spinta in avanti e l’ancoraggio alle cose direttamente presenti. Ma al di là di questa funzione il riformismo ha rappresentato qualcosa di più alto e importante.

Il riformismo si è dovuto costruire di una base elaborativa propria. È andato a riprendere i suoi classici, ha ricostruito un’identità, fatta laica autocritica dei suoi errori. Ma l’errore è stato nel farsi anche rappresentare da chi era passato dell’ammirazione per le rivoluzioni ma senza passare un autentico processo autocritico – Lo psicodramma del dopo caduta del muro di Berlino nel 1989 pare una passeggiata di salute a confronto del lavaggio psicodrammatico che avrebbe dovuto vivere un intero polo di opzioni politiche.

Arriviamo ad oggi in cui i riformisti nel prospettare grandi innovazioni non ne indichino nessuna, se non quelle offerte dal mondo della tecnologia e dalle possibilità messe in opera da un certo tipo di accessibilità finanziaria.

Avviene in modo chiaro ed esemplare che l’amministrazione delle città dove meglio di altri luoghi dovrebbe toccarsi con mano la capacità di scegliere e di decidere si ravvisa questa caduta del riformismo.

Non si decide in base a un disegno sulla città, ad un’analisi sulle sue priorità, sugli errori e sulle prospettive che, a torto o a ragione, si riconoscono. Si opera secondo una logica di riparazione dei danni attraverso strumenti finanziari messi a disposizione da sedi decisionali che stanno altrove dai municipi. È una fattualità che avviene per necessità perché chiaramente i Comuni non hanno soldi per grandi programmazioni.

Si benedicono allora i PNRR, si utilizzano fondi regionali, più esattamente europei. La gara consiste nell’acquisirne in gran numero per fare e fare in relazione ai criteri di selezione stabiliti nella scelta in altre sedi sulle ragioni per dare specifici affidamenti.

IN questo modo la politica amministrativa di una città è dettata da una miriade di piccole e grandi opere. Nessuna effettivamente scelta dal governo della città in base a una ritenuta priorità per l’analisi fatta su quello specifico urbanesimo.

L’esempio più diretto è Roma. IN questi giorni l’amministrazione in carica si sta muovendo per mostrare ai cittadini in tempi non sospetti il grande lavoro operato da questa conduzione. Si sommano una miriade di lavori, gran parte ancora e necessariamente in itinere, ma ci si chiede quale di questi sia stato mosso da un’analisi originale sui problemi della città e sulla capacità di voler compensare certi squilibri.

Facendo un esempio diretto e lineare. Roma è cresciuta nel secondo dopoguerra grazie alla solerzia di palazzinari che ebbero carta bianca dalle amministrazioni democristiane di quei tempi. Abbiamo avuto, quindi, la realizzazione di interi nuovi quartieri e della crescita della città tutto lungo le grandi vie consolari.

Quando il PCI e la sinistra unita presero le redini della città a metà anni Settanta si disse che l’imperativo doveva essere diverso. I quartieri sarebbero stati implementati e la crescita limitata nelle zone endogene evitando fortemente questa crescita stellare della città. Quel modello aumentava la lacerazione tra periferia e centro facendo diventare esplosive certe contraddizioni urbane che vedevano nel traffico in uscita e ingresso verso il centro il motivo della sua congestione. Doveva essere eliminata questa realtà.

Dopo qualche anno anche la realizzazione delle due linee di metropolitane fu considerata la massima dote della città perché un luogo come Roma non poteva sopportare lavori pubblici così gravosi come la realizzazione di metropolitane. Sarebbero state realizzate cosiddette “metropolitane di terra”. Si trattava di nuove linee tranviarie in grado di collegare i quartieri tra loro nella volontà di rendere ciascuna delle concentrazioni romane autonome dal centro. Eliminare il centrismo dovuto al richiamo delle Mura Aureliane per creare una città multicentrica e multipolare. Le circoscrizioni avanzarono di competenze e di valore chiamandosi municipi: quindi vere e proprie autentiche città.

Si sta parlando solo di una delle grandi linee direttive di un processo di cambiamento nella trasformazione urbana di Roma che potremo definirlo negli ambiti di un riformismo amministrativo.

Oggi c’è da chiedersi cosa è vivo di tutto questo. Nulla. Ogni intervento, meritorio, ma espressione di una sola rincorsa all’emergenza dettata da possibilità finanziarie derivate da altrove e mosse senza nessuna logica di cambiamento nella gestione urbana.

La povertà culturale di questo cambiamento si rileva anche dal titolo scelto nell’operazione di comunicazione: Strada Facendo. Come la canzone di Claudio Baglioni. In una precedente iniziativa su Roma veniva inserita a conclusione la canzone di Achille Lauro. Siamo arrivati nella realtà a quella gag umoristica in cui il libro di riferimento culturale del PD era il libro di barzellette di Totti.

Il governo di una città però non è una storiella da ridere. Si tratta di lavoro, sudore e tanta analisi prioritaria. Oggi si prendono i frutti arrivati da altrove, in maggiore quantità possibile, e si vendono come propri e autentici. Ma tutto ciò consiste anche nella premessa per nuove disuguaglianze.

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