Nulla si cancella. Nulla si cambia. In effetti è un risultato che tranquillizza un po’ tutti. Se per pura strana, pazzesca, coincidenza di ripresa di sensibilità generale, i referendum fossero arrivati al quorum con conseguente vittoria dei Sì, quelli dell’opposizione avrebbero dovuto caricarsi delle loro responsabilità. Avrebbero dovuto pensare a come rimettere insieme un progetto unitario e incalzare uniti il governo in carica.
Questo ultimo almeno un grande campanello di allarme ce lo avrebbe avuto. L’elettorato non aveva seguito l’indicazione arrivata da gran buona parte delle forze governative andando a votare. Si dimostrava che davanti la stringente questione del lavoro non c’è richiamo di casacca che tenga. Fa perno lo spirito di categoria sociale e lavorativa di appartenenza.
Ma tutto questo non è avvenuto ed è difficile dire se ha vinto l’ignavia o la presenza di cortesia istituzionale ai seggi di Giorgia Meloni oppure il dissenso totale di Ignazio La Russa con la chiara indicazione al non votare.
Con una percentuale al ventidue e sette per cento totalizzata di domenica la rimonta il lunedì è apparsa subito impossibile e si è fermata alle tre del pomeriggio a percentuale poco superiore.
Diversamente, sarebbe triste la riforma per cui si vota nei giorni feriali e magari se fuori piove.
L’evento di questo referendum segna il totale scollamento tra società reale, istituzioni della repubblica e forme di organizzazione sociale tese a mediare il divario tra i due mondi.
IL sindacato ha cercato di imporsi nel vuoto totale di una vera dialettica tra le parti e gli esiti non sono cambiati dal solito conato nei confronti di tendenze tese genericamente a “tutele crescenti”, ma di parti di società che possano contare superando il criterio della delega a partiti sempre meno rappresentativi delle dinamiche della Storia effettivamente in atto.
La narrativa dei referendum in Italia è gloriosamente legata a veri momenti di svolta nella laicizzazione dei costumi nel modo di intendere la cosa pubblica. Si pensi al referendum sul divorzio o al referendum sull’aborto. Al di là degli schieramenti e degli attendismi, presenti anche allora tra i partiti, la popolazione si espresse e dette la chiara idea di un cambiamento in corso a cui i soggetti chiamati con voto a rappresentare le scelte per la cosa pubblica dovevano dare risposta. Sempre con un referendum si disse no alle centrali nucleari sulle quali la politica ancora titubava dopo il disastro di Chernobyl.
Oggi era improbabile un ritorno a uno spirito di classe evocato da Landini e in contempo accettare una miriade di piccoli privilegi presenti nel mondo sindacale o almeno in molti attivisti professionali di questo ambito. Non c’è stata l’accettazione del dato per cui il contratto a tutele crescenti operato in età renziana e poi ritoccato da Conte era da rifiutare per il ritorno a condizioni di garanzia di permanenza sul luogo di lavoro. Non c’è stato neanche il ragionamento per cui quel tentativo di avvicinare datore di lavoro al lavoratore in effetti fu la premessa per un’importante riattivazione dell’occupazione. (Certo poi le ragioni generali stanno tutte dentro una contingenza economica di quegli anni!).
C’è stato invece un comportamento del tipo: “non disturbate il manovratore!” Di orwelliana memoria. Solo che stavolta è l’inerzia del corpo sociale ad averlo espresso.