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Palazzina Niente

Da tempo il cinema ha preso a documentare. Così come molti testi di nuova edizione, si sostituiscono al ruolo un tempo assegnato ai giornali e all’informazione ordinaria. E in un giornalismo che ha preso in carico espressioni come narrazione e racconto nelle sue categorie deontologiche non ci si poteva che aspettare una sorta di straripamento di ruoli anche da parte di uno degli strumenti deputati alla narrazione come il cinema.

Palazzina Laf si inserisce in questo solco. Solo che non informa sui fatti. Non esplica circostanze o accadimenti. Si limita ad essere espressione di quella che tecnicamente è chiamata alienazione nel lavoro. Un effetto di questi decenni

 – che va distinto nettamente dall’alienazione del lavoro e anche dall’alienazione dal lavoro: nel primo caso si indica l’estromissione del lavoratore dai cicli produttivi tanto da assimilarlo alle macchine e questa l’ha abbondantemente descritta Karl Marx; nel secondo caso invece si guarda alla situazione esistenziale per cui oltre il lavoro al lavoratore pare non resti nulla per cui si trova nuovamente ingranaggio e primo di identità propria

 – Negli ultimi cinquant’anni in molti complessi produttivi e terziari si è attestata una nuova categoria di alienazione tipica del luogo di lavoro: l’essere esclusi da ogni attività per transitare in un luogo di nessuno. Si tratta di un metodo sottilmente repressivo chiamato mobbing. Una forma tipica fu inventata nella Russia sovietica quando al detenuto non si faceva fare assolutamente nulla se non attività evidentemente inutili proprio per porlo davanti alla propria inutilità esistenziale

È una tipologia del secolo che ci siamo lasciati alle spalle e di quello in cui siamo con foltissima letteratura. Quello della Ilva di Taranto potrebbe vantare una primogenitura in ambito industriale. Solo che è giusto e bene ricordare la vicenda dell’Ilva per le morti da intossicazione create a chi ci lavorava dentro e ai cittadini di Taranto.

Solo qualche accenno con brevi inquadrature su una tosse persistente, invece dedica l’opera di Riondino. Originale come tematica ma non per coraggio. I temi salienti non sono stati nemmeno sfiorati. La parola Ilva appena accennata brevemente. Tantomeno le responsabilità dei responsabili di questo insediamento che negli anni unsero tutti i partiti dell’arco costituzionale.

Il tutto è mediato da una storia personale dove il protagonista, un alienato senza alcuna coscienza né di classe né di sua individualità umana, accompagna lo spettatore in una vicenda grottesca finita in tribunale con un capo di imputazione allora difficile da concepire: mobbing. L’idea di stare in uno stato di deprivazione da ogni responsabilità che non produce liberazione dagli oneri del lavoro ma ancor più stress e sfiducia tale da sconfinare in atteggiamenti pazzoidi. Ma è la caduta di tutti gli inquilini di quella famigerata Palazzina Laf, non del protagonista che è già portatore nato di una sua alienazione. Tanto che si pone come orecchio della proprietà e il suo destino lo vuole di ritorno al ciclo produttivo a guadagnarsi l’alienazione vera e propria.

Girato con la modalità di riprese brevi, come se si trattasse di sketch tali da non annoiare, anche se visti tutti insieme. Si tratta di una modalità di fare cinema che va per la maggiore e anche se si parla di alienazione non si potrebbe fare differenza. L’ultimo alienato è lo spettatore che è messo a conoscenza di una storia personale e collettiva che però non ha un finale, non ha un picco né una caduta.

La furbizia di chi fa denuncia nei nostri tempi è quella di non urtare troppo il denunciato. E forse anche questa è una forma di alienazione. A monte di questa palazzina dove si svolge la storia minuscola c’è un grande senso del “niente”. E non è detto che sia quello esistenziale.

Palazzina Laf, regia Michele Riondino; Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Michele Riondino; con Michele Riondino, Elio Germano e Vanessa Scalera; (2023) Durata 99 minuti

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