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mercoledì, Marzo 19, 2025

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I due grandi della Terra sono arrivati all'appuntamento in cui dovranno dare attestazione della loro rilevanza nel mondo

This is not America

Il duello che si apre per le presidenziali americane lascia il mondo di stucco per l’improbabilità dei due personaggi candidati. Tanto più nel caso di Joe Biden sorprende, perché si era detto disponibile a lasciare per un’altra candidatura democratica maggiormente rappresentabile con l’establishment statunitense fatto di gente garante di una prontezza fisica che l’ottuagenario con evidenti problemi di deambulazione non può più garantire. Tanto meno: vedere nuovamente Donald Trump, l’uomo inquisito per aver organizzato il tentativo di un colpo di Stato, almeno inscenato, a Capitol Hill, chiamato a presentarsi più volte davanti le magistrature fino a un mese fa sembrava fosse esclusa ogni sua velleità.

E invece eccoli i due vecchi, non grandi, disputare la solita litania dell’America first! Improbabile nel sbattersi da una parte e l’altra del paese per convincere un elettorato sempre più scettico tanto da aver cambiato la solita simpatia, democratica o repubblicana, in virtù dell’antipatia verso il proprio candidato.

Ed è un male, questo, che riguarda più Joe Biden. Tanto che potrebbe rilevarsi definitivo, tanto da fagli perdere quei punti di vantaggio attribuitigli dai sondaggi.

Altrettanto chiaro però che questo non può essere il volto di un paese che ha ancora la pretesa di determinare nel mondo. Entrambi, per diversi motivi ma tutto evidenti tanto da non aver bisogno di essere riferiti, si mostrano come inadeguati.

Biden si è fatto esplodere tra le mani due conflitti con delle proporzioni tali da non poter prevedere realisticamente una loro conclusione. Trump oramai è la caricatura di sé stesso e riesce a soffiare solo sugli animi più retrivi annunciando estradizioni di massa per la nuova immigrazione.

Tutte chiacchiere buone per i rotocalchi ma infruttuose per la politica praticata. In un quadro di alleanze da rimodulare, dopo ottanta anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, i due anziani evidenziano inadeguatezza su inadeguatezza.

La domanda allora è come mai non esiste una classe dirigente negli Stati Uniti che si proponga di pensionare i due. Perché nel Congresso, tra qualche rampollo di buona famiglia, non escano nuovi leader. Non si concepisca di prendere la responsabilità di guidare le sorti del paese, quantomeno con l’obiettivo di impedire all’avversario di farlo per te.

Niente di tutto questo. Appare un’inerzia incomprensibile e incapace a dare una veste ad una narrazione del paese che valga per New York, come per San Francisco, ma soprattutto per le tante realtà, tra contato e aree urbane, che stanno in mezzo a questo variegato paese.

La narrazione è un pilastro insostituibile per chi si presenta come progetto alla guida di una realtà complessa. La narrazione è storicistica: vince l’impossibilità di tradurre l’azione in rappresentazioni perché riconosce che il fatto è un’astrazione. Ed è il valore aggiunto che ha sempre caratterizzato la realtà americana. Da sempre.

La narrazione diventa un modo di essere, compone lo stile, costruisce il progetto. E in questo modo riesce a dare una lettura dell’esistente senza la quale i fatti che avvengono sono semplici incrociarsi di eventi slegati tra loro. La narrazione è la risonanza di un pensiero. Come tale supera necessariamente le esperienze confinate alla marginalità.

Si deve prendere atto che questa stagione della politica democratica inevitabilmente al tramonto, anticipa la crisi europea della leadership. Chi è già classe dirigente dirige ed ha molto più potere di un eletto. Non ha bisogno del passaggio elettorale per vedere confermata la proiezione delle sue volontà. Riesce ad esprimerle al meglio con la proiezione della sua sostanza nella realtà concreta.

Queste elezioni americane probabilmente segnano la fine della politica come l’abbiamo pensata in questo secondo dopoguerra.

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